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L’imposta di registro si applica sugli “effetti sostanziali” dell’atto. Con buona pace del diritto.

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FiscoOggi propone l’analisi della sentenza della V sez. civile della Cassazione n. 24799 del 21 novembre 2014 (–> qui), con cui la Corte afferma che l’imposta di registro è dovuta sugli effetti giuridici di un atto sottoposto a registrazione “a prescindere dalla volontà delle parti”. Si legge nel commento “il tema dell’indagine non consiste nell’accertare cosa le parti hanno scritto ma cosa le stesse hanno effettivamente realizzato con il regolamento negoziale adottato e tanto non discende assolutamente dal contenuto delle dichiarazioni delle parti”.

Fino a qui, nulla di strano o di nuovo. La giurisprudenza richiamata -molto opinabile, ma consolidata- traccia un percorso per il quale, quando un atto è sottoposto a registrazione, l’Agenzia è titolata (o tenuta, a seconda dei punti di vista) a compiere la liquidazione dell’imposta in base agli effetti “oggettivi” dell’atto. Dove “oggettività”, però, ormai somiglia molto a “come il funzionario capisce l’atto”. Con buona pace del diritto civile e, vien da dire, del diritto in genere.

Nel caso di specie, la vicenda appare così configurata: (1) una società immobiliare compra da un privato un terreno sovrastato da un rustico in rovina; poiché la società è una immobiliare, il privato spunta un prezzo non basso (l’istruttoria parla di “dieci volte il valore catastale”). (2) L’atto di compravendita viene registrato, e su di esso viene applicata l’imposta di registro. (3) Dopo l’acquisto, la società in questione deposita domanda di concessione edilizia per abbattere il rustico ed edificarne uno nuovo. (4) L’agenzia delle entrate emette quindi un avviso di liquidazione dell’imposta sulla base del fatto che “allora le parti volevano in effetti compravendere un’area edificabile”… E liquida una imposta (molto) più alta. (5) Il contribuente ricorre in primo grado e in appello, e vince in entrambi i gradi. L’Ufficio ricorre in cassazione e vince. Si noti che in tutto questo, l’imposta di registro è dovuta da ambo le parti, quindi, in questo caso, graverà sul venditore il quale ha “incautamente” fatto un buon affare vendendo il terreno a un buon acquirente.

Perché? La risposta della Cassazione è che “considerati tutti gli elementi”, in effetti le parti hanno realizzato una compravendita di area fabbricabile, e non di un terreno sovrastato da rustico, in quanto… La società acquirente ha successivamente presentato una domanda di concessione edilizia. In altre parole, l’imposta di registro più alta è dovuta, dal venditore del rustico+rudere, perché le parti avrebbero dovuto “spontaneamente” venire incontro ai desideri di maggior gettito dell’agenzia delle entrate, e, pur avendo compravenduto un terreno con un rudere, avrebbero dovuto considerare l’operazione come una compravendita di edificio. Vien da chiedersi: ma perché mai avrebbero dovuto farlo? Se la legge è chiara in proposito (paga il registro moltiplicando la rendita catastale per “x”), e il cittadino si attiene ad essa, perché l’Amministrazione deve sempre aver titolo a disconoscere il suo operato in nome di una non meglio chiarita “superiorità” dei suo giudizio? Con quale diritto lo Stato disconosce la legge che esso stesso ha posto (e imposto) ai propri cittadini per ricavare un maggior gettito?

La risposta è probabilmente da ricercare in una frattura profonda tra il cittadino e lo Stato cui appartiene: quando si rompe il rapporto tra rappresentanza politica e imposizione fiscale, l’effetto non può che essere una perversa spirale tra fuga dalle responsabilità sociali (e fiscali) e strangolamento dei diritti individuali, e del diritto tout court. Ma un simile stato di cose non è certo uno stato di sintonia tra Gesellschaft e Gemeinschaft: semmai si è di nuovo dinanzi all’irrazionale leviatano hobbesiano che Anna Ahrendt riconosce nel Processo di Kafka. E con questo siamo fuori dallo scopo del discorso: augh!