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Verifiche in azienda oltre i trenta giorni – Possibile una difesa?

keep-calm-and-study-tax-law-6Con la sentenza n. 7870 del 17 aprile 2015, la Suprema corte si è pronunciata in tema di violazione dell’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), cassando la sentenza della Commissione tributaria regionale che aveva ritenuto nullo l’avviso di accertamento emesso a seguito di verifica fiscale protrattasi oltre il termine previsto da tale norma (30 giorni di effettiva presenza nei locali). La sentenza, ripresa con il solito compiacimento fuori luogo da “FiscoOggi” (–> qui) elimina un altro principio di tutela del contribuente, tra quelli previsti dallo Statuto dei diritti (quali?) del contribuente, consolidando quelle posizioni dottrinarie che ritengono comunque valido l’accertamento emesso in base a verifiche eccessivamente prolungate.

L’art. 12 in questione prescrive (tra l’altro) che l’atto di accertamento, nel caso di verifiche ispettive, sia soggetto a due termini intesi a difesa del contribuente. Al comma 5 si prescrive che “La permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio“; al comma 7, che “(…), dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.

Il termine di cui al comma 7 è un termine cosiddetto “dilatorio”, ovvero un termine posto a difesa del contribuente, che ha diritto a quel termine per presentare le proprie osservazioni all’Ufficio prima che esso emani l’avviso di accertamento; questo “prima” è fondamentale, poiché “dopo” l’emanazione non vi sono che le vie previste per l’annullamento dell’atto.

Il termine di cui al comma 5, viceversa, non è dilatorio, ma posto a difesa della operatività ordinaria del contribuente verificato. E’ noto che le verifiche in azienda, a differenza dei quelle elettroniche, a distanza eccetera, sono intrusive: la presenza dei militari della GdF, o dei funzionari dell’Agenzia nei propri locali non è in genere annoverata tra le circostanze che semplificano la vita lavorativa. Come minimo, le comunicazioni interne all’ufficio e l’organizzazione logistica ne vengono fortemente impattati. Per questa ragione, il legislatore del 2000, nel dettare le tutele “normali” per il contribuente, aveva limitato a trenta giorni (si badi bene -anche non consecutivi-) la permanenza dei verificatori presso il contribuente verificato. Nel dettare questa norma, il legislatore aveva previsto (comma 6), che la conseguenza dello “sforamento” fosse la possibilità per il contribuente di ricorrere al “Garante del contribuente”, nelle intenzioni un ente terzo che garantisse il rispetto di regole “di civiltà” nei rapporti tra il cittadino e il fisco. Proprio in virtù di questa particolare tutela, l’avviso di accertamento emesso in violazione di questa norma non risultava direttamente nullo, ma evidentemente il procedimento per giungervi sarebbe risultato viziato di illegittimità.

L’impiego a fini difensivi di tale istituto è arduo. Va anzitutto detto che l’iniziale intenzione di creare un “garante del contribuente” con poteri di effettiva mediazione si è risolta in poco. In primo luogo, i poteri di intervento del garante sono grossomodo quelli di un difensore civico. In secondo luogo, la struttura di questo ufficio, immaginata come una sorta di collegio di revisione, di tre membri, è divenuta monocratica nel 2011; con la stessa legge, d’altro canto, sono stati esclusi dal novero dei soggetti idonei, gli alti ufficiali della GdF e i dirigenti dell’Agenzia (piuttosto ovvio, ma non era così). Con la legge di stabilità 2014 si era addirittura pensato di far “collassare” tale figura, individuandola nel Presidente della Commissione Tributaria Regionale, con buona pace della terzietà. A seguito della levata di scudi apparsa sulla stampa specializzata (vedi G. Gentili, sul Sole24Ore, 20 ottobre 2013), la norma fu ritirata dal testo definitivo; in ogni caso, la nomina del Garante dipende dal Presidente della CTR, il suo ufficio si trova dentro le sedi territoriali dell’Agenzia e i modi in cui si estrinseca la sua attività mantengono una poco rassicurante opacità (vedi C. Pace, Innovatori PA, 16 aprile 2015).

Primavera pugliese. In tale contesto, era stata accolto con grandissimo favore l’orientamento iniziale di alcune Commissioni Tributarie che avevano considerato come l’attività ispettiva prolungata fosse posta in essere in violazione di legge, e quindi i suoi risultati fossero passibili di inutilizzabilità, analogamente a quanto avviene in sede penale (CTP Catania Sez. II, 04/05/2004, n. 238: “ogni elemento raccolto, dagli operatori della Guardia di finanza o degli uffici impositori, oltre il limite temporale di giorni trenta prorogabili di altri trenta giorni con provvedimento motivato, è frutto di attività posta in essere in violazione della norma espressa. La conseguenza di questa violazione, anche se non comminata espressamente, è l’inutilizzabilità degli elementi di prova raccolti oltre il limite“) o addirittura forieri di nullità (CTP Bari Sez. X, 07/05/2010, n. 99:”va dichiarata illegittima l’attività di verifica che si sia protratta per tre mesi, con conseguente illegittimità della verifica stessa e nullità dell’avviso di recupero”, confermata in CTP Bari, Sez. XVII, 12/05/2010, n. 131 e 11/11/2010, n. 293, e approfondita in CTP Bari, Sez. XXII, 2/11/2011, n. 148, dove si affermava -con grande coerenza dogmatica- che “L’inutilizzabilità dei documenti provenienti da attività illegittime non abbisogna di una espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale, secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola”.). Tale orientamento, in ottica di tutela dell’affidamento del contribuente, era senz’altro da condividere e rafforzare ma, ovviamente, così non fu. 

La prima doccia fredda della Cassazione giunge con la sentenza Cass. civ. Sez. V, 22/09/2011, n. 19338, secondo la quale “la violazione di tale norma non comporta la nullità dell’accertamento né l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, posto che tali effetti non sono previsti dall’ordinamento. Il contribuente, in tal caso, può formulare osservazioni e rilievi nonché rivolgersi al Garante del Contribuente, per fare presente la questione“.

In altre parole, nel 2011, la Cassazione, applicando –pro domo principis– la norma, la cui ratio è chiaramente di tutelare il cittadino, dichiarava che sì, la norma c’era, ma la sua violazione dava al più il diritto a “lamentarsi” presso l’ufficio del Garante che, in quel momento, era poi lo stesso che, in veste di giudice tributario, avrebbe poi eventualmente dovuto disporre della sua illegittimità. Con questa manovra, il Supremo Collegio svuotava di significato la norma di tutela, ed anzi la trasformava in una sorta di trappola mortale per il contribuente che se ne fosse avvalso: non solo il ricorso fondato su verifiche illecite sarebbe stato confermato, ma per giunta il sollevare tale motivo di illegittimità avrebbe condotto alla condanna alle spese legali. Una sorta di metodo “vae victis”, temperato da un “diritto di mugugno” di matrice genovese. Tuttavia, dato che la Cassazione si era espressa, l’orientamento veniva quindi modificato dalle CTP e CTR nel senso di ritenere non inficiato in alcun modo l’avviso di accertamento fondato su elementi illecitamente raccolti. La sentenza in commento conferma tale orientamento, aggiungendo che in caso di superamento del termine di durata delle operazioni di verifica, il legislatore non ha stabilito alcuna norma sanzionatoria che renda nulli gli atti compiuti ovvero un’invalidità derivata dell’atto impositivo, e tanto meno ha previsto, in conseguenza della scadenza del termine, la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo dell’Amministrazione finanziaria (cfr Cassazione, sentenza n. 16323/2014, che esclude la natura perentoria del termine in mancanza di una specifica disposizione in tal senso). A nulla vale, naturalmente, il rilievo che l’azione della P.A. debba essere sorretta da un rigoroso rispetto del principio di legalità. Ma vi è di peggio.

Per effetto del disposto della legge 132/2014,. che ha ristretto i casi in cui il giudice può compensare le spese, questa nuova pronuncia consolida l’orientamento precedente del 2011, privando l’argomento di quel carattere “controverso” che deriva dall’esistenza di un contrasto giurisprudenziale. Nel caso in cui si impieghi questo come principale motivo di censura avverso l’avviso di accertamento, si può essere pertanto sicuri di vedersi affibbiare per intero le spese legali di controparte (l’Ufficio!) che verrebbe quindi anche “premiato” per aver violato una norma procedimentale posta a tutela del contribuente.